Riflessioni sull’arte dal 1945 ad oggi
La domanda che ci pone il nostro amico Giorgio Seveso, stimato critico di “cose vere”, è la seguente: è possibile fare un bilancio o una valutazione dell’arte italiana dal ’45 ad oggi, tenendo conto in base a quali spinte sono avvenuti i cambiamenti?
Non è la prima volta che ci troviamo in questo bar attiguo al Teatro Piccolo e la conversazione è sempre appassionata per la complessità dell’argomento. Ma questa volta Giorgio ci chiede di mettere giù su un foglio le nostre riflessioni su un periodo così lungo, nella speranza che dai ricordi non affiori, ma è inevitabile, un lamento. Dal momento che anagraficamente siamo stati testimoni ed in parte protagonisti almeno dagli anni ’60, animati da energie e dal lavoro dedicato a cose che abbiamo avuto l’impulso di realizzare.
Il ’45 segna la fine della guerra, l’umanità si sveglia da un incubo e, come aveva scritto Argan è “stupita di esistere”.
Il ‘900 dei valori plastici aveva concluso la sua grande stagione con artisti che hanno portato l’arte italiana ai livelli più alti nel panorama europeo, ma, già verso la sua inevitabile conclusione, nascevano bisogni espressivi in un’aria che cambiava come i cicli della natura o come la crisalide che si libera dall’involucro.
Nel ’41 Guttuso dipinge la famosa crocifissione del premio Bergamo che appare subito come un’opera nuova perché trae la sua forza dalla necessità che la realtà entri nella pittura. Il dipinto ci colpì anche perché la sua novità nasceva da una cultura che aveva la massima attenzione e rispetto della storia.
Sempre nel bar attiguo al Piccolo siamo tutti d’accordo che da un certo momento in poi il meccanismo che faceva nascere le cose dalle cose è saltato.
I passaggi in arte avvengono per gemmazione o reazione. Si pensi al Futurismo; il mondo era attraversato da una scarica elettrica che metteva in movimento anche gli atomi degli oggetti. La reazione è la metafisica che ferma le cose per magia in una immobilità eterna.
Nel ’64 la Biennale di Venezia celebra la Pop-Art. Gli americani avevano deciso di darsi una loro arte e lo fecero in grande stile e con una intelligente organizzazione mercantile (pare che siano stati gli inglesi però a dipingere le prime opere pop). Ricordo comunque la laguna di Venezia invasa da queste opere di grandi dimensioni trasportate sulle gondole. L’artista che mi colpì di più fu Rauschenberg che ritengo il più geniale del gruppo.
Bisogna purtroppo fare i conti con la storia; a volte un grosso ciottolo cade in un torrente e può deviare il corso dell’acqua in tutt’altra direzione e non sapremo mai se ciò è stato un bene o un male.
Per i miei amici seduti al bar, che ha visto Strehler e la sua compagnia sorbire cappuccini, concordiamo che un prodotto dell’arte, oltre all’intelligenza è fatto anche di imprevisti e incidenti che sono stati immessi dentro e che il tempo non riesce a corrodere.
Negli anni ’50 e ’60 si sviluppa in Italia la Nuova Figurazione che ha in Milano il suo punto forte e Valsecchi, con un colpo di genio, la definì “Realismo Esistenziale” semplificando le problematiche. Ma la figurazione italiana è un aspetto della pittura europea di quegli anni che faceva tesoro di tutte le conquiste dell’arte di quegli anni, in particolare l’informale che immise nella pittura una nuova energia e spazialità.
Ci sono vari esempi di grandi artisti che, pur essendo molto diversi tra loro per origine e cultura, approdano a cose simili perché hanno sentito la pulsione dei tempi. Penso a Lucio Fontana e Francis Bacon; il primo spazialista è figlio del futurismo, movimento che approda poi nell’arte cinetica e cioè dentro un pensiero scientifico dell’arte. Credo che gli artisti non si fossero mai conosciuti, ma i tagli verticali di Fontana sulla tela bianca, assomigliano alle sciabolate verticali con le quali Bacon aggredisce l’Innocenzo X° di Velázquez, opera da lui vissuta come un’ossessione. Entrambi avvertono nello stesso tempo questo bisogno dell’”OLTRE” rispetto allo spazio precedente vissuto fino allo spasimo.
Non vorrei dilungarmi su cose che sappiamo ma che è bene ricordare.
Mentre scrivo queste cose per gli amici del bar sono nel mio studio; ho davanti a me un trittico, 1,20×3 metri che ha come tema una rilettura della crocifissione di Grünewald dell’altare di Isenheim. L’avevo dipinto più di dieci anni fa, ma recentemente ho ripreso l’ultimo pezzo, il Cristo risorto; ho distribuito le immagini con una successione in orizzontale come fotogrammi di un film. Mi ha sempre impressionato questo pittore tedesco così diverso dai suoi contemporanei italiani, che riesce a trasmetterci la durezza del legno e il dolore fisico dei ferri infissi nella carne dalla ferocia umana. Vedo che l’approccio con il dipinto fu giusto, bisognava inventarsi un segno o come si dice una “scrittura” per tradurlo.
Ma, tornando al bar, penso che Giorgio Seveso desideri sapere da noi cosa pensiamo e come viviamo la situazione artistica attuale.
Certamente i poteri forti dell’arte non hanno aiutato lo sviluppo di una ricerca pittorica della figurazione con il rischio di soffocarla.
Da un po’ di anni vediamo sempre le stesse cose e ciò ha creato disaffezione del grande pubblico che vorrebbe capire di più sulla nascita e il significato di tali proposte. Nonostante ciò credo che la mia “tensione” verso la scoperta del linguaggio pittorico non sia cambiata: e non è cambiato uno strano meccanismo che avviene nel corso del mio lavoro. Mi accorgo cioè che quando ho terminato un dipinto che pensavo risolto, non contento incomincio a stravolgere le cose in uno spazio fatto di incidenti e imprevisti. Così scopro delle cose nuove che mi fanno fare un passo avanti nel mio lavoro e, questo, mi sembra un buon motivo per continuare a dipingere nonostante tutto.
In questo mi aiuta forse l’anima napoletana che è maestra nell’invenzione del linguaggio. I venditori di ortaggi si svegliano al mattino per vendere al pubblico la loro merce, ma bisogna inventarsi qualcosa perché una mela appaia come la vedessero per la prima volta.
Ma, scherzi a parte, penso che l’impegno della figurazione oggi richieda un coraggio ed una forza per conquistare spazi espressivi nuovi per uscire dalle cose già fatte e anche una critica appassionata che pensa con la propria testa.
Avevo visto una grande mostra di Damien Hirst al Museo Oceanografico di Montecarlo e pensavo che se un pittore abituato ad usare i pennelli e la tela volesse realizzare una sola di quelle opere, dovrebbe rivolgersi ad una ditta specializzata in cose aereospaziali.
Più di un secolo fa Cézanne disse “l’arte serve ad elevare il pensiero”, ma serve anche a suscitare emozioni e far sognare. Ma ho la netta sensazione che il sogno dell’arte stia confluendo nel mondo inarrestabile della tecnologia. Alcuni sostengono che l’uomo, senza accorgersene, stia vivendo una trasformazione antropologica.
Svariate volte sono stato investito, sulle strisce pedonali, da signore che attraversavano con me, ma in diagonale, immerse nelle loro lavagnette con aria concentrata e rapita.
Speriamo che conservino lo stesso stupore davanti alla “Tempesta” di Giorgione o alla “Lattaia” di Vermeer o a Guernica.
25 Gennaio 2016
Alberto Venditti