Critica
Franco De Faveri
Aprile 2003
PER UN POSSIBILE DIALOGO (presentazione dell’opera “Da Grünewald”)
Non si hanno immagini del volto originario del Gesù storico. Le descrizioni che ne abbiamo sono il riflesso della speculazione teologica nel suo sviluppo. La deformità, ma prestigiosa, dell’aspetto che uno dei primi padri della Chiesa, Origene, gli attribuisce, significa la sublimità prepotente dello spirito divino, che si manifesta attraverso la deformazione del corpo. Il predicato di bellezza, è d’origine gnostica e solo più tardi viene generalizzato. Da allora l’immagine resta come sospesa tra due poli: l’arte bizantina e la romanica esprimeranno con le forme esterne della regalità (con la tipologia del Pantocrator o della Majestas) il primato della natura divina. L’età gotica, insiste sull’altro momento della doppia natura e, a cavallo tra il gotico nordico e l’arte Rinascimentale, Grünewald ha elevato coll’altare di Isenheim il monumento forse più alto all’umanità che soffre nel Cristo, quintessenziato nel volto del crocifisso. Nel trittico che vediamo Venditti dedica a Grünewald un interessante esempio di “pittura della pittura” nel quale però è assente proprio il volto di Cristo. Perché?
“Pittura della pittura” è una formula che prendiamo a prestito alla critica letteraria romantica, da Friedrich Schlegel che ha coniato il concetto di una “poesia della poesia”, per definire specialmente la propria che voleva essere insieme una ricreazione e un approfondimento teorico-filosofico della poesia passata: quasi una poesia alla seconda potenza, con il senno e i bisogni di poi. Un bisogno preminente nella “pittura della pittura” di Venditti è certo l’essenzializzazione dell’immagine, che s’accoppia bene con quel vento pluridirezionale che la agita, venendo dall’interno e proiettandosi sulla superficie, scompigliandola; ma il momento essenzializzante non può dar conto della propria autonegazione: l’essenza della passione grunewaldiana si coglie proprio nel volto del Cristo morto, qui a noi sottratto. Si deve quindi cercare più in là. La poesia è uno dei temi scoperti dal nostro secolo (per tutti rimanderò a Rilke e, da noi, agli ermetici, Ungaretti per primo). I procedimenti sono diversi, ma tutti tendono al “nascondimento” di un’immagine che riceve una più grande freschezza e novità dalla rimemorazione indiretta e callida. La rappresentazione artistica e poetica dà così la mano alle correnti del pensiero contemporaneo che cercano il Dio nascosto, non più localizzabile nel cielo altissimo ora silenzioso e vuoto – eppure ancora presente nell’Assenza.
Questo altalenare del pensiero, vibrante tra due poli congiunti nella loro opposizione, viene reso bene nel trittico vendittiano dalla dialettica delle due dimensioni, la verticale e l’orizzontale. Lo sguardo dello spettatore viene captato subito, a sinistra, dalla figura della Maddalena orante che accompagna lo sguardo verso l’alto, in collaborazione con la scala, collocata subito accanto. Il movimento verticale dell’occhio termina però nell’Assenza – non a caso, la scala è spezzata. Dal vuoto della verticalità sottratta scendiamo poi a incontrare, nel pannello di destra, l’immagine del trionfo sulla morte, quasi il balzo del Cristo, dal sepolcro aperto, verso l’al di là, le palme tese a mostrare le stimmate. Intanto, un secondo percorso ottico s’è iniziato nella dimensione orizzontale. Nel pannello di sinistra, accanto alla Maddalena, vediamo la “firma” del pittore, presente attraverso i suoi classici attributi, che vengono a mescolarsi e quasi confondersi con quelli di Cristo: i colori e la corona di spine. Il collegamento tra il pannello centrale e quello di destra è dato dall’icona dell’Agnus Dei con la croce. A racchiudere e unificare i due percorsi, come un robusto gioco di parentesi, intervengono i due forti segni del martirio, che insanguinano la veste della Maddalena e del Cristo, richiamati qua e là da tocchi di rosso sparsi intorno.
2005
La Cappelletti Arte Contemporanea ha presentato, in maggio, l’ultima produzione del pittore di origine napoletana, da anni residente a Milano, Alberto Venditti: paesaggi e nature morte, dipinti con rara sintesi denotativa. Da tempo, ormai, questo vigoroso esponente della nuova figurazione contemporanea ci presenta oli di estrema asciuttezza espressiva. Il colore è magro, in certi casi come strappato dalla stessa polpa cromatica in una sorta di ferita aperta; il segno serpeggia lungo le torturate campiture come per graffiare ed incidere in profondità il tessuto degli scarni soggetti trattati. Si ha così la percezione, acutamente dolorosa, di una visione del mondo che si sospinge sino alle radici dell’essere, dove l’uomo-natura rispecchia le lacerazioni e gli spasimi della sofferenza universale.