Critica

Giorgio Seveso

ALBERTO VENDITTI E IL VENTO DELLA POESIA

Leggo da una conversazione tra Venditti e Marcello Colusso: “Il nostro occhio vede ciò che è riposto in una zona più profonda, al di sotto del quotidiano… Alcuni anni or sono, al mare, ci fu un forte temporale che durò tutta la notte; al mattino in una campagna a pochi passi dai templi di Paestum c’era disteso (o meglio si espandeva in un verde scintillante) un eucaliptus carbonizzato; un organismo, un dinosauro di un nero splendente; c’era dentro tutto: dall’informale alle ultime tendenze… un accadimento, o un incidente… un flusso di energia che entrava all’improvviso nello spazio”. Ecco, in queste rapide note c’è come il tratteggio interiore della pittura del nostro artista: la “sinopia”, diciamo, del suo modo d’immagine, che regge un suo straordi­nario, personalissimo dinamismo, un vortice sottile che sempre inquieta ed increspa, sotto la buccia delle cose, l’impassibilità oggettiva del reale scoprendone ed annun­ciandone i valori di metafora. Da quando conosco il suo lavoro (e sono ormai quasi trent’anni, ora che ci penso!) ho imparato ad apprezzare questa speciale, straordinaria qualità dinamica del suo figurativo: qualità che è insieme d’ordine formale e d’ordine poetico, nella squisita coincidenza, alle sorgenti stesse del suo gesto, tra forma e sentimento, tra linguag­gio e ispirazione poetica. Ho qui tra le dita, a promemoria delle immagini viste dal vero, una serie di sue ripro­duzioni recenti, che accosto l’una all’altra: una sorta di vento le percorre, come un agitato stupore che ne sublima il significato, diciamo così, letterale, o superficiale, “tirandolo” amorosamente al lirico. Credo che anche Venditti, come per altri pittori che mi piacciono e che quando posso invito ad amare, la pittura abbia rappresentato e rappresenti soprattutto l’espressione di un viaggio nella propria anima, in quella parte dell’anima (e della sensibilità) che non è solo intessuta di tracce personali ma che diviene specchio più generale, sentimento comune, anima di tutti noi… C’è infatti una fascinazione prorompente in queste tele, una segreta fibrillazione che contamina i sensi e la ragione, i nostri equilibri consueti, rovesciando i baricentri del sapere e del sentire verso dimensioni nuove degli oggetti comuni, dei loro spazi, delle loro relazioni. È proprio questa, difatti, la costante ispirativa delle immagini che abbiamo di fronte. Che sono fatte di lirismo, ma anche percorse come da improvvisi lampi di inquiete memorie, sempre sospese ad un filo esplicitamente autobiografico capace tuttavia di allusioni, di favoleggiamenti, di richiami onirici più universali. Ed è proprio ai fermenti di questo suo riflettere così simboleggiante, così esistenzialisticamente metaforico, che probabilmente si deve in pittura la singolarità e l’indi­pendenza del suo gesto d’immagine intriso d’umori e di echi espressionistici dai sapori sommessamente combusti; e, di più, si deve questa convinta, saporosa attualità del suo gusto figurativo, che appare decisamente “esistenzialistico” ma al tempo stesso (ed è ciò che personalmente più mi persuade) anche profondamente e consapevolmente infitto nella tradizione della pittura-pittura, senza rotture, senza opportunismi. Ogni poeta sa – e lo sa anche Venditti, dal fondo della sua contemplatività e del lavorio della memoria affettiva – che, come ha scritto Samuel Beckett, “soltanto le parole rompono il silenzio, tutto il resto tace”. Cioè la natura e il mondo, per darsi completamente agli uomini, debbono essere anche detti, devono essere parlati. E Venditti, appunto, con i suoi segni e suggestioni mature e persuasive, riesce, oggi come ieri, a parlarcene nel migliore dei modi.

2005

La Cappelletti Arte Contemporanea ha presentato, in maggio, l’ultima produzione del pittore di origine napoletana, da anni residente a Milano, Alberto Venditti: paesaggi e nature morte, dipinti con rara sintesi denotativa. Da tempo, ormai, questo vigoroso esponente della nuova figurazione contemporanea ci presenta oli di estrema asciuttezza espressiva. Il colore è magro, in certi casi come strappato dalla stessa polpa cromatica in una sorta di ferita aperta; il segno serpeggia lungo le torturate campiture come per graffiare ed incidere in profondità il tessuto degli scarni soggetti trattati. Si ha così la percezione, acutamente dolorosa, di una visione del mondo che si sospinge sino alle radici dell’essere, dove l’uomo-natura rispecchia le lacerazioni e gli spasimi della sofferenza universale.