Critica
Riccardo Barletta
febbraio 1982
IL BUCRANIO E L’ANIMA DEL FUOCO
OGGETTI IN CERCA D’AUTORE. All’epoca di Pirandello erano i personaggi a cercare un autore. Oggi ciò avviene per gli oggetti, per le cose, o per gli uomini-quasi-cose; questi ultimi pareggiati agli oggetti e agli animali. La ragione prima è che, sbiadita una scala di valori, in cui primo veniva l’uomo, secondi gli animali detti superiori, terzi gli animali inferiori, quarte le cose fatte dall’uomo, e poi tutta la natura — prima quella vegetalmente viva, poi quella organica e inanimata — dissoltasi, si diceva, una gerarchia canonica che sembrava imperitura, si vive in una situazione di disagio. La creazione sembra aver perso il creatore; o, se volete, l’autore. Gli “oggetti in cerca d’autore” li troviamo nella pittura; nella pittura figurativa degli ultimi anni, in cui essi cercano di riacquistare un significato diverso da quello comune o banale od ovvio. Le due nozioni di verismo e di realismo vengono, in questo caso, svuotate dall’interno. Sempre per dirla con Pirandello, si passa dal “giuoco delle parti” al “giuoco delle cose”. È l’artista a scegliere le cose, e a farle giocare insieme, in una trama di rapporti, di allusioni, di simiglianze, di metafore, di simboli. Ma sono le cose stesse a condurre il giuoco. L’artista deve assecondarle, farle agire, analizzarle e mostrarle lucidamente, nel loro sembiante. La condizione post-moderna ha distrutto il creatore, ma sta rivalutando I'”autore”. Un esempio valido di siffatta situazione, peraltro sempre più emergente, ci è offerto dai lavori di Alberto Venditti, giunti oggi ad un elevato grado di maturazione.
LESSICO. Le immagini della tematica di Venditti sono estremamente poche. Sedie o appoggi lignei; lampadine e fili elettrici penzolanti; fiori in cartoccio, o di carta, o in esplosione; il bucranio; il cane e il rinoceronte; poche persone della sua cerchia, la sua bimba Antonella, la gallerista Lidia, l’amico pittore Ferroni. Come si vede abbiamo le varie sfere delle cose inanimate, di quelle di natura, di quelle animali, di quelle umane. Certamente, per Venditti e per noi che contempliamo i quadri, Antonella e Lidia e Ferroni non sono “cose”; ma c’è un pareggiamento tra queste persone e le cose; le poche cose, le cose ingrandite, le cose in primo piano. Ciò è ancor più evidente, per il fatto che Venditti ha eliminato dalla scena ogni altro elemento, e la sua tela diventa un palcoscenico vuoto d’altre immagini, ma denso d’un eloquente colore. Attenzione. Sia che l’artista descriva un interno, sia che delinei un esterno, il colore di fondo della tela rimane lo stesso, unificante; non c’è più il chiuso e l’aperto; in un dipinto, addirittura, questa ambiguità si palesa in una magistrale soluzione rappresentativa, talché la parete verdina della stanza diventa nello stesso tempo l’esterno d’una strada (Judith e il bucranio, 1981). Non si tratta di un artificio. Ma del bisogno del pittore di abolire le due nozioni di vita privata e di vita naturale; c’è sì un attento percettivismo nel descrivere i pochi oggetti e le persone a lui vicine; eppure c’è un annichilimento di tutto il resto, una cancellazione di rapporti. Niente di drammatico, in questa pittura lenta e meditata. L’annichilimento non è che un limbo; il limbo interiore in cui vive prigioniero l’uomo moderno. Le opere di Venditti valgono non per quel che “dimostrano” (lungi da lui, qualsivoglia ipotesi ideologica), nè per quello che “mostrano”, bensì per quello che c’è dietro la scena.
UN LIMBO RAFFINATO. Pareggiate persone e cose, abolito interno ed esterno, il lavoro dell’artista è quello di rendere credibile la sua visione del destino. Sul piano tecnico, ciò avviene mediante un accuratissimo disegno, fortemente in equilibrio rispetto ai timbrismi cromatici, ottenuti mediante successive aggiunzioni di velature, di pennellate morbide o sottili, magre o grasse, in accensione o in abbuiamento, con un gioco di textures mai meccaniche o programmatiche, bensì sempre organiche al discorso “tattile”, come avrebbe detto il Berenson. Sul piano stilistico, il linguaggio di Venditti è il prodotto di una osmosi di culture diverse, ma integrate con grande controllo, che partono da una visione secentesca della figura e della luce (la scuola barocca napoletana), fino a giungere agli stupori del divisionismo, ma con tagli, scorci e prospettive, che possono avvicinarlo, soltanto “avvicinarlo”, alla scuola dei Vespignani, Guerreschi e Ferroni, per la durezza nell’esibizione della figura. Un “limbo” raffinato, dunque. Non va confuso con le tendenze iperrealistiche, né con quelle neo-espressioniste (transavanguardia). Non va valorizzato come “mera pittura”; bensì per il suo contrario, cioè come riflessione etica che si avvale dei mezzi della pittura.
UN DRAMMA QUIETO. É quello della condizione esterna, ormai ben strutturata e canalizzata; in cui la natura, la libertà, l’amore vero, ci sono dati più come incancellati e incancellabili desideri, che come appagate realtà. Il dramma è quieto, nell’iconografia di Venditti, così lucida e attenta. Le persone. Ecco Lidia, dallo sguardo vivo e volitivo; la sua mano cerca di afferrare che cosa? In alto una lampada dal moderno design pende, ma non è il famoso “uovo” di Piero della Francesca, nella pala di Brera. Ferroni, il viso simile a una topografia di segni del vissuto, entra da una porta che è un vuoto. Di vari personaggi si vedono solo le gambe; camminare, andare, verso dove? Pantaloni gualciti, jeans, scarpe da tennis; e anche fruste camicie. Ma soprattutto è commovente la figura di Antonella, la figlia del pittore. Qua, in mutandine e in blusa, la faccia attonita. Là, quasi stravolta al Parco di Milano, col corpo arrovesciato all’indietro. O, ancora, buttata per terra in una prospettiva fisicizzata, di piede, ginocchia, coscia, mano, e infine, ma per ultimo, il viso rattrappito dalla luce. Tutte queste persone sono poste in relazione: con cose o con animali. Si passa dalle carnose piante d’appartamento, a fiori in cartoccio o che precipitano (la caduta ha un significato morale), a fiori artificiali, o fatti di disordinati fogli di carta, o a fiori che sembrano scoppiare nell’aria. Simboli della “morte della natura”. Ma anche della nuova “vita artificiale”, che è concentrata nella stupenda immagine della lampadina pendente dall’alto, i fili elettrici penzolanti e aggrovigliati simili a capestri metaforici. Sedie e appoggi lignei, segni d’una età borghese e d’una età artigianale, allo stesso tempo. Il lessico di Venditti ha il suo punto forse più personale nei due animali, iterati. Il cane: massicciamente steso per terra, languido e carnale; col muso proteso, ma con l’intelligenza del solo istinto; visto di faccia, nelle pieghe d’una geografia antigraziosa (bulldog). Il rinoceronte: bruttezza e grottesco descritti minuziosamente, scavati, mostrati in più prospettive, carcassa organica e fagotto di carne, microocchio e corno e controcorno, protuberanze spaventose e assurde insieme. In questi due animali, la “morte della natura” si mostra come regressione al livello degli istinti. Ciò che non toglie, sul piano pittorico, che l’artista li realizzi con grande maestria.
IL BUCRANIO E L’ANIMA DEL FUOCO. L’iconografia di Venditti ci ha mostrato una scelta coerente ed integrata. Ma questa “morte della natura”, questo limbo interiore, dove ci porta? É tutto negativo? Direi di no. La bellezza organica dei bucrani è descritta senza compiacenze. C’è uno stoicismo d’immagine, nell’arte di Venditti, che non si permette crepuscolarismi né adagiamenti verso il macabro. Persino la nuda lampadina è una immagine di vita — anche se, in un attimo, il sottile filamento si può fulminare. Ebbene dove troviamo il nucleo portante, irradiante, propulsivo, della visione di Venditti? Nell’opposto del bucranio — simbolo di morte e di consumo del tempo. Questo opposto è I’ “anima del fuoco”. Il fuoco ha un’anima, che s’esprime nella sua stessa consistenza inconsistente, e nella sua luce sempre cangiante. Dopo una fase di dipinti fondati sulla tonalità celeste-blu (l’aria), e una fase intermedia grigio-chiara, Venditti da almeno due anni è approdato a una tonalità di fondo rosso-bruna (il fuoco). Egli non parte mai dalla tela bianca, ma da una tela colorata, base emotiva, dalla quale emergono figure per successive sovrapposizioni. L’anima del fuoco è, dunque, il punto di partenza, come quello d’arrivo, della creatività attuale dell’artista napoletano. Nel momento di partenza, c’è una pura e semplice tela rosso-bruna. Ma qual è il punto d’arrivo? Lo si riscontra nei vari dipinti. Al di là delle poche figure del lessico di Venditti, il rimanente spazio “annichilito” presenta sia i colori del fuoco, sia i colori della cenere. Il fuoco ci dà barbagli, scintille, lucori, vivezze improvvise, trasalimenti, smorzamenti. In alcuni luoghi dei dipinti appaiono i colori della cenere, spazi d’ombre e di penombre, spazi in cui i timbri si fondono in una orchestrazione tonale, ricchissima di eventi luministici. Il conflitto tra bucranio e I'”anima del fuoco” è solo apparente. Tra Eros e Thanatos, Venditti, infatti, non sceglie. Preferisce descrivere, raccontare, con occhio impietoso ma con sentimento partecipe. Dopo la “morte della natura”, prigionieri del limbo interiore, c’è chi rispetto alla parte dell’accusatore, o a quella del reo, preferisce la parte del testimone. Come Venditti, che testimonia il “tramonto dell’umano”.