Critica

Giuliana Galli

dicembre 1980

ITINERARIO NELLA CREATIVITÀ DI ALBERTO VENDITTI

Le immagini di Alberto Venditti sono accostabili, per «affinità elettiva» a quella fauna artistica, seguita e coccolata da quel personaggio straordinario che fu Roncaglia: molto più di un mercante accorto e intraprendente, dotato, come fu, di intuito e fiuto eccezionali: dal suo vivaio, emersero i talenti di Vespignani, Guerreschi, Ferroni che, pur da diverse angolazioni, espressero l’ambiguità dell’immagine. Autodefinitosi «artigiano della pittura», Venditti opera coscienziosamente, impiegando fondi pastosi, animati da pennellate brevi e guizzanti, il cui andamento rotatorio scardina l’apparente compattezza dell’impaginazione formale, facendo intuire la labilità delle certezze gratificanti. Fan parte del repertorio iconico, certi interni, su cui si staglia la figura di un uomo, sprofondato in una poltrona confortevole e, isolato dall’ambiente circostante, immerso, com’è, nei suoi pensieri. Nonostante gli agi borghesi, i suoi personaggi sembrano essere afflitti da una solitudine senza scampo, attutita tutt’al più dalla presenza di un animale. Venditti ha abbandonato le stesure larghe, per un’analisi lenticolare delle composizioni, eseguite con paziente a-cribia. Anche la tavolozza è gradualmente mutata: da una gamma di tonalità solari, che focalizzavano l’immagine, per contrasto, facendola risaltare su un fondo neutro, Venditti ha adottato dei toni più sobri e pacati, in cui le figure si armonizzano, in felice simbiosi con gli altri elementi formali. C’è una parola da spendere per l’amore sviscerato, che Alberto nutre per gli animali, protagonisti indiscussi di molte sue opere: che dire, infatti, dell’ironico rinoceronte che, benevolmente, accetta Alice, amica dell’autore, come comprimaria? Dietro lo sguardo, apparentemente velato e torpido del rinoceronte, si nasconde un osservatore acuto e vigile del mondo circostante, da cui si difende con la sua acuminata protesi a uncino. Più che guardinga, Alice appare angosciata, lo sguardo dilatato dall’ansia, le mani spasmodicamente contratte, a tradire la conoscenza profonda dell’anatomia, disdegnata con aperto disprezzo dalla scuderia, spronata dalla coriacea Oliva-Bonita, trionfalmente autoproclamatasi multinazionale, nella recente Biennale. Si usa, infatti, relegare in soffitta il noto adagio: «Impara l’arte e mettila da parte», in quanto siamo alle prese con le sfaccettature di un’arte, la cui definizione è ambigua e insidiosa. Né mancano ritratti di amici-artisti, riconducibili a un comune alveo espressivo: Luigi Volpi, le cui fattezze pensose sono contrapposte a un bucranio, in mano reca un cappello, come accade a chi si appresti a congedarsi. Un altro esponente artistico, è Ferroni, sul cui capo penzola una dimessa lampadina, da lui abbondantemente impiegata per gli «interni» delle sue composizioni, ottenute con tecnica ed espedienti quasi fotografici. Personaggio favorito di molte tele, è la titolare del «Fante di Spade», una delle gallerie di Roncaglia, ritratta nelle pose più disparate. Altri soggetti, frequenti delle opere di Venditti, sono i cani, muti testimoni delle vicissitudini umane, con particolari che ammiccano all’arte post-pop americana, di cui, però, non condivide la puntigliosità fotografica e l’uso dei mass-media. In altre, rasenta l’iper-realismo, ma con avveduta ironia e accortezza per l’esattezza dei particolari, dai nodi delle stringhe, ai risvolti dei pantaloni, alle pieghe di abiti sformati. Se la tecnica è sapiente e annosa, ecco che l’estro creativo irrompe e dilaga, stemperandosi nel crogiolo dell’im-magine: ed è subito lirismo, rilevabile nello scatto timbrico: la tensione si allenta e sgorgano fiotti di luce a temperare e smussare il taglio, fin troppo accurato e nitido, delle sagome delle figure, attenuando i confini tra le cose. Le figure sono circonfuse da un alone morbido e radioso, in un continuum ineffabile, percepibile nelle accensioni cromatiche. Inquietante, è anche un suo ironico autoritratto: l’epidermide sembra di carta velina e lascia intravvedere la trama delle vene, facendo così sfoggio di una tecnica, accostabile al Vespignani più cerebrale nelle analisi più capillari dell’immagine. Accanto alle tele, tutte rigorosamente ad olio, sia pure «tirato» e stemperato in stesura ampie, appena mosse da una trama di pennellate ondeggianti, son presenti diverse tecniche grafiche; soprattutto incisioni, da cui si intuisce il lavorio micro-strutturale del segno, che mette a nudo, attraverso un reticolo grafico, i particolari più impercettibili di persone e cose. In certi acquerelli, tecnica insidiosa, che Alberto impiega con disinvolta maestria, sfruttandone i giochi di velature e trasparenze, vi è una contrapposizione tra lo sguardo attento del rinoceronte e l’occhio impersonale dell’obiettivo fotografico. Nelle più recenti incisioni, protagonisti sono cani, colti nelle pose più svariate: in movimento, in uno scorcio na-turalistico, di cui sono messe in risalto le più riposte strutture, esaminate con la cura di un gotico moderno, per virare, poi, verso un’immagine, avulsa da asfittici retaggi.

2005

La Cappelletti Arte Contemporanea ha presentato, in maggio, l’ultima produzione del pittore di origine napoletana, da anni residente a Milano, Alberto Venditti: paesaggi e nature morte, dipinti con rara sintesi denotativa. Da tempo, ormai, questo vigoroso esponente della nuova figurazione contemporanea ci presenta oli di estrema asciuttezza espressiva. Il colore è magro, in certi casi come strappato dalla stessa polpa cromatica in una sorta di ferita aperta; il segno serpeggia lungo le torturate campiture come per graffiare ed incidere in profondità il tessuto degli scarni soggetti trattati. Si ha così la percezione, acutamente dolorosa, di una visione del mondo che si sospinge sino alle radici dell’essere, dove l’uomo-natura rispecchia le lacerazioni e gli spasimi della sofferenza universale.